lunedì 3 settembre 2012

Il cavallo "bianco" di san Francesco

Il ciclo pittorico delle Storie di san Francesco che Giotto e i giotteschi realizzano nel registro inferiore della navata della Basilica superiore sul finire del secolo XIII, tra il quadro introduttivo con L'omaggio di un uomo semplice (il primo della prima campata da ovest) e quello cruciale de La rinuncia dei beni (al centro della seconda campata), raffigura tre episodi che - forse un po' ingenuamente - mi piace leggere attraverso la figura del cavallo.
Un cavallo ora nero - ma originariamente bianco (come si vede nell'immagine ricostruita virtualmente per la mostra "Giotto com'era"), di un bianco di zinco, la biacca, la cui ossidazione ha prodotto questo risultato - fa bella mostra di se nell'episodio de Il dono di un mantello a un povero tratto, come per tutto il ciclo, dalla Legenda maior di san Bonaventura:
Una volta incontrò un cavaliere, nobile ma povero e mal vestito e, commiserando con affettuosa pietà la sua miseria, subito si spogliò e fece indossare i suoi vestiti all’altro. Così, con un solo gesto, compì un duplice atto di pietà, poiché nascose la vergogna di un nobile cavaliere e alleviò la miseria di un povero. (I,2c: FF 1030c)
Ma, come si può osservare, nel racconto non è citato nessun cavallo, ne bianco ne nero. Si tratta forse del cavallo da cui Francesco scese per abbracciare il lebbroso così come troviamo più avanti nella stessa fonte biografica (I,5a-b: FF 1034a-b), ma in quest'episodio il cavallo proprio non c'è. C'è invece nell'episodio successivo, quello de La visione del palazzo pieno d'armi crociate, o meglio nel suo sviluppo.
. La notte successiva mentre dormiva, la Bontà di Dio gli fece vedere un palazzo grande e bello, pieno di armi contrassegnate con la croce di Cristo, per dimostrargli in forma visiva come la misericordia da lui usata verso il cavaliere povero, per amore del sommo Re, stava per essere ricambiata con una ricompensa impareggiabile. Egli domandò a chi appartenessero quelle armi e una voce dal cielo gli assicurò che erano tutte sue e dei suoi cavalieri. Quando si destò, al mattino, credette di capire che quella insolita visione fosse per lui un presagio di gloria. Difatti egli non sapeva ancora intuire la verità delle cose invisibili, attraverso le apparenze visibili. Perciò, ignorando ancora i piani divini, decise di recarsi in Puglia, al servizio di un nobile conte, con la speranza di acquistare in questo modo quel titolo di cavaliere, che la visione gli aveva indicato. Di lì a poco si mise in viaggio; ma, appena giunto nella città più vicina, udì nella notte il Signore, che in tono familiare gli diceva: «Francesco, chi ti può giovare di più: il signore o il servo, il ricco o il poverello?». «Il signore e il ricco», rispose Francesco. E subito la voce incalzò: «E allora perché lasci il Signore per il servo; Dio così ricco, per l’uomo, così povero?». Francesco, allora: «Signore, che vuoi che io faccia?». «Ritorna nella tua terra – rispose il Signore – perché la visione, che tu hai avuto, raffigura una missione spirituale, che si deve compiere in te, non per disposizione umana, ma per disposizione divina». Venuto il mattino, egli ritorna in fretta alla volta di Assisi, lieto e sicuro. Divenuto ormai modello di obbedienza, restava in attesa della volontà di Dio. (Legenda maior I,3: FF 1031-1032)
E' vero, qui non si fa menzione del cavallo, come invece lo troviato citato nel brano parallelo della Leggenda dei tre compagni dove appunto si dice che:
Spuntato il mattino, in gran fretta dirottò il cavallo verso Assisi, lieto ed esultante. (6d: FF 1401c)
E giungiamo così finalmente al terzo quadro della nostra considerazione (il primo della seconda campata da ovest), quello de Il crocifisso di San Damiano parla a Francesco
Un giorno era uscito nella campagna per meditare. Trovandosi a passare vicino alla chiesa di San Damiano, che minacciava rovina, vecchia com’era, spinto dall’impulso dello Spirito Santo, vi entrò per pregare. Pregando inginocchiato davanti all’immagine del Crocifisso, si sentì invadere da una grande consolazione spirituale e, mentre fissava gli occhi pieni di lacrime nella croce del Signore, udì con gli orecchi del corpo una voce scendere verso di lui dalla croce e dirgli per tre volte: «Francesco, va e ripara la mia chiesa che, come vedi, è tutta in rovina!». All’udire quella voce, Francesco rimane stupito e tutto tremante, perché nella chiesa è solo e, percependo nel cuore la forza del linguaggio divino, si sente rapito fuori dei sensi. Tornato finalmente in sé, si accinge ad obbedire, si concentra tutto nella missione di riparare la chiesa di mura, benché la parola divina si riferisse principalmente a quella Chiesa, che Cristo acquistò col suo sangue, come lo Spirito Santo gli avrebbe fatto capire e come egli stesso rivelò in seguito ai frati. Si alzò, pertanto, munendosi del segno della croce, e, prese con sé delle stoffe, si affrettò verso la città di Foligno, per venderle. Vendette tutto quanto aveva portato; si liberò anche, mercante fortunato, del cavallo, col quale era venuto, incassandone il prezzo. (Legenda maior II,1: FF 1038-1039)
Quel cavallo da cui Francesco scende per dare il suo mantello al cavaliere povero (o se volete per abbracciare il lebbroso); quel cavallo che Francesco dirotta per tornare ad Assisi rinunciando così ai suoi sogni per aderire alla missione che il Signore gli indica; è lo stesso cavallo di cui, mercante fortunato, si liberò, incassandone il prezzo. Un uso, quello simbolico del cavallo, che ha precedenti illustri. La conversione di san Paolo ci è narrata per ben tre volte negli Atti degli Apostoli (9,3-4; 22,6-7; 26,12-15), una fragorosa caduta sulla via di Damasco dove però mai compare un cavallo come invece siamo soliti immagine (e dire) e come l'arte - nello specifico il Caravaggio - ha spesso interpretato:
Da quale cavallo cade Paolo? Da quale cavallo Francesci prima scende, poi impara a governare fino a liberarsene? Puo essere utile a questo punto scendere in Basilica inferiore e considerare, nell'Allegoria dell'Obbedianza, a sud della volta del presbiterio affrescata dalla Bottega di Giotto nel secondo decennio del sec. XIV, la figura mitologica del centauro: mezzo uomo e mezzo cavallo.
Forse un po' semplicisticamente, siamo soliti dire che il centauro rappresenta qui l'orgoglio che rifiuta la logica dell'obbedianza che, come la croce di Cristo a cui la virtù fa riferimento (si noti l'immagine del Crocifisso alle spalle dell'Obbedienza stessa), è scandalo e stoltezza (cf 1Cor 1,23) per i sapienti e i potenti di questo mondo. Da questo orgoglio Paolo è disarcionato. Da questo orgoglio Francesco si libera. Forse proprio per questa esperienza Francesco farà scrivere nella Regola non bollata del 1221:
E non sia loro [i miei frati] lecito andare a cavallo se non vi siano costretti da infermità o grave necessità. (XV,2: FF 41b)

sabato 18 agosto 2012

Incominciamo dunque fratelli... Il ciclo giottesco della Basilica di Assisi con la storia di san Francesco. 1: L'omaggio dell'uomo semplice

Si tratta dunque ora di partire. E non c'è miglior punto per iniziare che, appunto, l'inizio. La vita di san Francesco che Giotto - o forse, almeno secondo alcuni, sarebbe meglio dire più genericamente "i giotteschi" - illustra dopo il 1288 nel registro inferiore della navata della Basilica superiore di Assisi, come tutte le storie che si rispettino ha un inizio e ovviamente una fine. Una introduzione che, come è da sempre consuetudine, sembra essere stata "scritta" alla fine per dare una chiave di lettura alla storia stessa. Si tratta del primo riquadro sul lato nord della prima campata da ovest, quella che viene comunemente intitolato: "L'omaggio di un uomo semplice". Ecco l'immagine nella versione "com'era", ricostruita virtualmente in occasione della mostra "I colori di Giotto. La Basilica di Assisi tra restauro e restituzione virtuale" del 2010 e pubblicata nel sito del Ministero per i Beni e le Attività Culturali
L'episodio è tratto - come per tutto il ciclo - dalla Legenda maior di san Bonaventura, la biografia "ufficiale" di san Francesco approvata dal Capitolo generale dell'Ordine minoritico tenutosi a Pisa nel 1263. Così scrive l'autore nel capitolo primo in cui presenta la condotta di Francesco da secolare:
Vi fu, nella città di Assisi, un uomo di nome Francesco, la cui memoria è in benedizione, perché Dio, nella Sua bontà, lo prevenne con benedizioni straordinarie e lo sottrasse, nella sua clemenza, ai pericoli della vita presente e, nella sua generosità, lo colmò con i doni della grazia celeste. Nell'età giovanile, crebbe tra le vanità dei vani figli degli uomini. Dopo un'istruzione sommaria, venne destinato alla lucrosa attività del commercio. Assistito e protetto dall'alto, benché vivesse tra giovani lascivi e fosse incline ai piaceri, non seguì gli istinti sfrenati dei sensi e, benché vivesse tra avari mercanti e fosse intento ai guadagni, non ripose la sua speranza nel denaro e nei tesori. Dio, infatti, aveva infuso nell'animo del giovane Francesco un sentimento di generosa compassione, che, crescendo con lui dall'infanzia, gli aveva riempito il cuore di bontà, tanto che già allora, ascoltatore non sordo del Vangelo, si propose di dare a chiunque gli chiedesse, soprattutto se chiedeva per amore di Dio. Una volta, tutto indaffarato nel negozio, mandò via a mani vuote contro le sue abitudini, un povero che gli chiedeva l'elemosina per amor di Dio. Ma subito, rientrato in se stesso, gli corse dietro, gli diede una generosa elemosina e promise al Signore Iddio che, d'allora in poi, quando ne aveva la possibilità, non avrebbe mai detto di no a chi gli avesse chiesto per amor di Dio. E osservò questo proposito fino alla morte, con pietà instancabile, meritandosi di crescere abbondantemente nell'amore di Dio e nella grazia. Diceva, infatti, più tardi, quando si era ormai perfettamente rivestito dei sentimenti di Cristo, che, già quando viveva da secolare, difficilmente riusciva a sentir nominare l'amore di Dio, senza provare un intimo turbamento. La dolce mansuetudine unita alla raffinatezza dei costumi; la pazienza e l'affabilità più che umane, la larghezza nel donare, superiore alle sue disponibilità che si vedevano fiorire in quell'adolescente come indizi sicuri di un'indole buona, sembravano far presagire che la benedizione divina si sarebbe riversata su di lui ancora più copiosamente nell'avvenire. Un uomo di Assisi, molto semplice, certo per ispirazione divina, ogni volta che incontrava Francesco per le strade della città, si toglieva il mantello e lo stendeva ai suoi piedi, proclamando che Francesco era degno di ogni venerazione, perché di lì a poco avrebbe compiuto grandi cose, per cui sarebbe stato onorato e glorificato da tutti i cristiani
(I,1 : FF 1027-1029).
La lunga citazione potrebbe bastare a giustificare la scelta di chi curò il programma iconografica (forse il minorita fra Jacopo Torriti che papa Niccolo IV - il primo francescano a salire sulla cattedra di Pietro - porterà poi a Roma dove realizzerà i mosaici absidali di San Giovanni in Laterano e di Santa Maria Maggiore)... se non fosse per alcuni particolari che ci "costringono" a soffermarci ulteriormente. il pittore rappresenta colloca l'episodio nella principale piazza della Città, quella che oggi è conosciuta come Piazza del Comune, dove, accanto al Palazzo del Capitano del Popolo con la torre completata nel 1305 (guarda caso nel nostro affresco è ancora priva del tetto e nell'ultima serie di finestre si intravede un argano usato per la costruzione)c'è l'antico tempio di Minerva... reso con qualche abbellimento come ad esempio il rosone nel timpano. Ecco, per un utile confronto (e ad eventuale conferma) un'immagine della realtà:
Ma torniamo all'affresco e al "protogonismo" dell'antico tempio. Stupisce infatti come non sia semplicemente uno sfondo. Le persone sono messe sui lati forse perché appunto l'edificio appaia in tutto il suo insieme. Ma perché? Sappiamo dagli storici che il Tempio di Minerva ai tempi di Francesco era utilizzato come pregione, come sembrano sottolineare le inferriate alle due finestre. Un tempio, un carcere. La mente va qui alla confessione che Francesco fa nel Testamento del 1226 circa i suoi inizi:
Il Signore dette a me, frate Francesco, di incominciare a fare penitenza così: quando ero nei peccati mi sembrava cosa troppo amara vedere i lebbrosi
(1: FF 110). Sembra quasi che il nostro quadro voglia tradurre in immagini questo tempo della vita di Francesco: un tempio dove si adorano gli idoli rimanda facilmente al peccato che ha la sua radice nell'idolatria di sé, un'idolatria che rende schiavi (il carcere appunto) e incapaci per paura di accostarsi al diverso. Parafrasando potremmo far dire a Francesco: "quando adoravo me stesso non ero libero di incontrare l'altro". E' questo il punto di partenza di un cammino di conversione dal peccato, di liberazione dalla paura. Un'ultimo sgurdo alla figura dell'uomo "semplice" che getta il suo mantello ai piedi di Francesco in un gesto celebre nell'iconografia dell'ingresso di Gesù a Gerusalemme narrato nel vangeli e di cui si seguono le rappresentazioni di Giotto della Cappella degli Scrovegni di Padova (1303-1305) e di Pietro Lorenzetti nel transetto sud della Basilica inferiore di Assisi (1310-1319)
Quale il collegamento? Forse l'idea che il cammino di conversione che Francesco intraprende è reso possibile dal mistero del Cristo che a Gerusalemme patì, morì e risuscitò, rendendo così l'uomo "capace" di riscattarsi in lui dalla schiavitù del peccato e della morte.

Incipit

Non c'è una ragione per cui ho pensato di aprire questo blog. A dire il vero qualche tempo fa un amico me lo propose... così, quasi per scherzo, forse per darmi uno spazio per dire qualcosa senza bisogno di avere qualcuno che le ascolti. Eccomi ora qua a condividere l'esperienza di questo tempo che la Provvidenza - in uno dei suoi imperscrutabili disegni - mi ha portato a vivere ad Assisi, presso la tomba di Francesco, all'ombra della splendida Basilica a lui dedicata. Proprio da qui vorrei partire ragionando "ad alta voce" su alcune immagini nelle quali mi capita spesso di guidare pellegrini e turisti. Se qualcuno dovesse per disavventura imbattersi in queste righe abbia compassione di me: non sono esperto di nulla e proprio questa consapevolezza mi ha fatto nascondere dietro un nome come appunto "anonimo francescano". Un eccesso di familiarità forse che fa cedere alla presunzione di aver qualcosa da dire. E se poi qualcuno vorrà interagire - non so ancora se e in che modo lo strumento lo permette - sia il benvenuto... anche per tentare un'impresa comunque ardua: se non proprio toglermi almeno sollevarmi un po' da questa ignoranza. Grazie dunque, anche sole di essere arrivato fin qui. Il Signore ti dia Pace